Pubblichiamo di seguito l'intervento che il segretario cittadino dei Ds di Vieste, Aldo Ragni (nella foto), ha tenuto ieri all'incontro pubblico con Enrico Letta, candidato alla segreteria nazionale del Partito Democratico, a Foggia, nella Sala del Tribunale della Dogana
Aprire un ciclo nuovo
di ALDO RAGNI
«Il nostro compito è di aprire un ciclo nuovo nella vita dell’Italia, della sua democrazia e delle sue istituzioni».
Con questa frase si apriva la mozione che Piero Fassino ha presentato al congresso DS dello scorso aprile, con la quale a larga maggioranza decidemmo la trasformazione dell’Ulivo in Partito Democratico.
In queste settimane nelle quali siamo impegnati alla preparazione delle liste ed alla formazione dei vari comitati è diventato un po’ un obbligo "prendere partito" e dire con quale candidato ti schieri col rischio che tutto si risolva nel piantare una bandiera, cercando di farlo col massimo del consenso.
Limitare la discussione sulla preferenza per un candidato rispetto ad un altro rischia, infatti, di svuotare di contenuti il processo di costruzione del PD e di farci perdere di vista il vero obiettivo al quale dobbiamo lavorare, la nascita di un vero e grande partito riformista di centrosinistra.
Occorre riportare al centro della discussione il progetto anche se in molti preferiscono discutere di liste, organigrammi, posti.
Un partito, infatti, non nasce per riposizionare i gruppi dirigenti o per sostenere meglio un governo o perché la contingenza del sistema politico lo richiede; se fosse così non si andrebbe molto lontano.
Un partito nasce da una lettura del tempo, del mondo, da una visione: che nel nostro caso si fonda sulla centralità dell'individuo.
La persona, dunque, come la chiave più moderna di una crescita che fonde benessere e cittadinanza.
E l’accesso alla cittadinanza di milioni di uomini e donne che oggi (nel mondo, ma anche in Italia e soprattutto qui al Sud) sono meno liberi di altri, perché nascono nel posto sbagliato, nella famiglia sbagliata o semplicemente per quello che sono, deve rappresentare un punto cardine del progetto del nuovo partito.
In fondo qui, il PD appunto, sta il punto di incontro tra la cultura liberale, il solidarismo cristiano e una sinistra che non rinuncia alla sua battaglia per l’uguaglianza.
Ma il PD avrà successo se milioni di persone lo vivranno come un fatto nuovo. E come un atto di coraggio.
E perché questo accada noi non possiamo descrivere un'operazione tanto ambiziosa – lo dico soprattutto ai miei amici e compagni di partito - in continuità lineare con tutto quello che abbiamo detto e fatto nel corso degli ultimi quindici anni.
E' vero, senza l'Ulivo, la tenacia dei DS, i gruppi unici in Parlamento e soprattutto le primarie dell’ottobre 2005, oggi non potremmo neppure parlare di PD.
Ma – diciamoci la verità – per anni molti di noi hanno sempre pensato che le ragioni oggi assorbite nel PD dovessero trovare sbocco dentro il solco e l'evoluzione della sinistra italiana.
Su questo abbiamo investito, con generosità ma senza successo.
Abbiamo allora accettato una scommessa diversa, la sfida che ci ha chiesto di raccogliere Romano Prodi alle elezioni europee del 2004, Uniti nell’Ulivo. Da lì è poi partito tutto.
Abbiamo imboccato una strada che va oltre la sinistra e che investe culture che del riformismo hanno una matrice, valori e radici diverse.
Riconoscere che abbiamo preso una strada diversa significa rendere più forte questa nostra innovazione.
Nel senso che il successo del nuovo partito deve essere il frutto di una rottura, di un balzo, non di un compimento.
Io capisco il senso nel rivendicare quella continuità perché rappresenta una garanzia in più per una classe dirigente che ha moltissimi meriti nella vicenda di questi anni.
Primo tra tutti aver portato la sinistra a vincere e a governare in tante città e regioni. Per due volte nel Paese. Ma bisogna distinguere. E capire che la forza di questo progetto sarà anche - non solo, ma anche - nel prendere atto che una classe dirigente non può condurre con la stessa forza e credibilità stagioni diverse.
E che la sfida adesso è accompagnare questo processo, nella consapevolezza che toccherà ad altri proseguire il percorso.
Penso che dirlo - con rispetto, con misura, ma dirlo - non sia solo un atto di sincerità. Ma anche un attestato di stima verso chi ha creato le condizioni per giungere fino qui. Mentre tacere di questo sarebbe oggi una reticenza.
Non ne faccio una questione anagrafica o di provenienza partitica ma di credibilità del progetto politico. Dobbiamo pensare a domani, non a ieri.
Lo abbiamo detto in tante lingue, il PD è il primo partito post ideologico di questo Paese.
È il partito che ci consente di consegnare definitivamente alla storia le divisioni ideologiche tra le famiglie dei democratici e dei riformisti che hanno attraversato la storia del secolo scorso.
Dobbiamo avere il coraggio di guardare avanti, di guardare sì con simpatia al passato ma soprattutto con curiosità al futuro.
Abbiamo bisogno di aprire le nostre menti alle nuove sfide alle quali questo secolo ci mette di fronte.
Ed io dico che una delle sfide principali nel nostro paese è la lotta alla cooptazione.
Mi convinco sempre di più che il vero dramma di questo Paese (nella politica come nell’economia) è che ci sono un paio di generazioni che sono fuori dalla porta.
E che magari sono proprio quelle generazioni, come dice Francesco Boccia, in grado di dare il meglio di loro stessi proprio nel periodo della loro vita in cui sono tenute fuori.
Le ragioni di fondo di questo ritardo sono sostanzialmente due: il familismo (specie in economia) che premia la parentela e, appunto, la cooptazione (dove in politica gli esempi si sprecano) che premia la fedeltà.
Il problema della cooptazione qual è: che i tempi non li decide il cooptato ma il cooptante che, per ovvie ragioni, tende sempre a spostare in avanti l’appuntamento della sostituzione.
Per restare al tema del PD ci sono tanti giovani che vogliono essere protagonisti nella costruzione del nuovo partito con le proprie idee, con la propria passione, con la propria freschezza ai quali non si può dire che il loro turno è sempre il prossimo.
Nel libro di Andrea Romano, Compagni di scuola, troviamo le ragioni di tutto ciò: il gruppo dirigente che gestisce le sorti della sinistra italiana da oltre vent’anni - a Roma come a Foggia - si scontra, si combatte, si fa gli sgambetti, ma alla fine non ha mai smesso di fare squadra tra loro in una logica di sopravvivenza comune che aveva lo scopo di ridurre i pericoli dell'inserimento sulla scena di altri potenziali protagonisti.
Ecco perché per superare questi ancoraggi occorre un investimento, anzitutto culturale, tale da imporre regole per la selezione delle classi dirigenti come bussola per la modernizzazione del Paese.
Ecco perché credo che delle primarie dobbiamo farne lo strumento indiscusso di selezione delle classi dirigenti a partire dalla candidatura per il prossimo Presidente della Provincia.
Perché tutti devono sentirsi in discussione. Non esistono posizioni di rendita acquisite per sempre. Nulla è dovuto, tutto si deve conquistare.
Dove sta scritto che un Presidente, un Sindaco, un Parlamentare o un Consigliere Comunale deve essere per forza ricandidato a quella carica?!
La candidatura di Letta esprime il senso e le stesse ragioni per le quali stiamo costruendo il PD restituendo alle primarie il valore della competizione.
La stessa candidatura di Emiliano alla segreteria regionale dimostra questo e le reazioni scomposte e nervose di una parte di quel gruppo dirigente che oggi subisce quella candidatura ma che si è rivelato così debole da non potersi opporre che cosa dimostra se non la paura di mettersi in discussione.
Alle primarie del 14 ottobre non si mette in discussione ciò che di buono e persino di grande è stato fatto sin qui.
Al centro del confronto c’è ciò che di buono e speriamo di ancora più grande faremo da qui in avanti.
Ed è su quello che saremo giudicati.
martedì 4 settembre 2007
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