sabato 25 agosto 2007

Un Pd maggioritario, per un centrosinistra di nuovo conio

Ieri l’anticipazione della prefazione al libro di Walter Veltroni, che raccoglie il discorso programmatico del 27 giugno, al Lingotto di Torino, in cui il sindaco di Roma si è candidato alla segreteria nazionale del Partito Democratico. Oggi, sul quotidiano Europa, l’editoriale di Francesco Rutelli. L’uno e l’altro accentuano il profilo più dirompente che caratterizza la sfida delle primarie del 14 ottobre: dare vita a un partito nuovo che garantisca rappresentanza politica maggioritaria e fortemente caratterizzata nella sua identità riformista. Riproduciamo di seguito le due riflessioni.

Un partito maggioritario

di WALTER VELTRONI

L'Italia ha bisogno di un partito che si proponga di dare cultura di governo al bipolarismo italiano. Se le parole hanno un senso, questo significa che il Partito democratico nasce per superare l'idea che quel che conta è vincere le elezioni. Ovvero battere lo schieramento avversario mettendo in campo la coalizione più ampia possibile, a prescindere dalla sua coerenza interna e dalla sua effettiva capacità di governare il Paese.

Il Partito democratico nasce per affermare un'idea diversa e nuova: quel che conta è governare bene, sulla base di un programma realistico e serio. E lo schieramento che si mette in campo deve essere coerente con questo obiettivo. Non si tratta solo di un ribaltamento dello schema tattico che ha dominato il bipolarismo italiano in questa lunga transizione. Si tratta di una rivoluzione culturale e morale. Si tratta di restituire moralità alla politica. Si potrebbe dire che si tratta di affermare una visione “antimachiavellica” della politica stessa: scopo della politica non è organizzare la forza necessaria alla conquista e alla conservazione del potere. Questo è semmai un vincolo strumentale, che non può e non deve essere trascurato. Ma il fine della politica deve essere un altro: deve essere il perseguimento dell'interesse del Paese, attraverso la costruzione del necessario consenso attorno a un programma di governo.

È precisamente questo che intendiamo, quando diciamo che il Partito democratico è un partito "a vocazione maggioritaria": un partito che punta non a rappresentare questa o quella componente identitaria o sociale, per quanto ampia possa essere, ma a porsi l'obiettivo di carattere generale di conquistare nel Paese i consensi necessari a portare avanti un programma di governo, incisivamente riformatore. Non per questo, un partito a vocazione maggioritaria, quale il Pd deve essere, è una forza che si pensa come autosufficiente: al contrario, è un partito che intende valorizzare l'alleanza di centrosinistra. E intende farlo sulla base del principio fondamentale della democrazia dell'alternanza, per il quale le alleanze di governo si fanno e si disfano davanti agli elettori, prima del voto. Ma il Pd nasce per riordinare, nel bipolarismo, la gerarchia dei valori tra la coalizione e il programma: è il programma comune, un programma di governo e non genericamente elettorale, che fonda la coalizione, non viceversa: non si può giustificare la vaghezza o l'ambiguità del programma, in nome del feticcio dell'unità della coalizione. Sarebbe come considerare la parte più importante del tutto, il partito (o la coalizione) più importante del Paese.

Del resto, in nessuna grande democrazia europea sarebbe immaginabile presentarsi agli elettori con una coalizione priva dei requisiti minimi di coesione interna, tali da rendere credibile la sua proposta di governo: un'operazione politico-elettorale siffatta non avrebbe alcuna possibilità di vittoria, perché sarebbe inesorabilmente bocciata dagli elettori. In Gran Bretagna come in Spagna, in Germania come in Francia, i partiti che intendono candidarsi a governare non possono dar adito ad alcun dubbio circa la loro affidabilità. Memorabile è la lezione di moralità politica di Jacques Delors, che preferì rinunciare alla candidatura alle presidenziali del 1995, perché non avrebbe potuto dar vita, alle successive elezioni legislative, a una maggioranza parlamentare coerente.

Quasi quindici anni di bipolarismo immaturo hanno ormai reso assai sensibile anche l'elettorato italiano su questo punto: non solo per propria scelta dunque, ma anche per una precisa esigenza di sintonia con il Paese, qualunque sarà il sistema elettorale che avremo in futuro, il Pd non potrà presentarsi alle elezioni all'interno di coalizioni disomogenee sul piano programmatico. Piuttosto, dovrà accettare il rischio, o sperimentare l'opportunità, di correre da solo.

Il Partito democratico nasce anche per rompere una falsa alternativa: quella tra governabilità e democrazia. Come non ha senso considerare la sfida del governo come un limite alla partecipazione democratica, allo stesso modo è un errore pensare di poter affrontare le resistenze che si oppongono alle riforme riducendo, anziché allargando, gli spazi di esercizio della cittadinanza. Il Pd al quale penso è un partito che intende mettere al servizio di un incisivo programma riformatore tutta la forza della partecipazione democratica, la mobilitazione delle energie intellettuali e morali, civili e politiche, delle quali dispone una società viva come quella italiana. Non c'è altra strada per fare le riforme: non si può immaginare di dare alla politica la forza necessaria a far prevalere gli interessi generali sulla tirannia di quelli particolari, corporativi, microsettoriali, senza conferirle una nuova legittimazione democratica.

Per questo il Partito democratico dovrà essere un partito davvero nuovo. Perché dovrà pensarsi non più come un bene privato, di proprietà della comunità chiusa, per quanto larga possa essere, dei suoi fondatori, dei suoi dirigenti, dei suoi militanti. Ma al contrario come una istituzione civile, che svolge una funzione pubblica e che come tale appartiene a tutti i cittadini che intendono abitarlo. Questo è del resto il modo di intendere i partiti proprio delle grandi democrazie: le quali, non a caso, dispongono di pochi, grandi partiti politici, il ciclo di vita dei quali si misura in svariati decenni, quando non in secoli. Uno dei sintomi più preoccupanti della grave malattia che affligge la democrazia italiana è invece proprio la proliferazione di tanti, piccoli ed effimeri soggetti politici, che è perfino improprio definire partiti, almeno nel senso europeo (per non dire nordamericano) del termine, e che per la loro spiccata vocazione oligarchica, quando non familistica, è ancor più difficile descrivere come democratici.

Il Partito democratico nasce per segnare una discontinuità profonda con questo stato di cose. Non a caso si è deciso di fondare il partito nuovo, non sulla base del semplice mandato dei partiti preesistenti e neppure a partire da un appello di uno o più leader, bensì attraverso un vero e proprio "big-bang" democratico: l'elezione di un'assemblea costituente e di un segretario da parte di tutti i cittadini che si dichiarano interessati a contribuire a questa straordinaria impresa collettiva. Di conseguenza, il prossimo 14 ottobre, giorno stabilito per le elezioni costituenti, nascerà un partito che non sarà di proprietà privata di qualcuno, ma si proporrà come un'istituzione della democrazia italiana, a disposizione di tutti i cittadini che, riconoscendosi nei suoi orientamenti di fondo, vogliano utilizzarlo "per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale", come recita l'articolo 49 della Costituzione.

Il codice genetico col quale nasce il Pd determina necessarie coerenze rispetto allo sviluppo della sua forma-partito, del suo modello politico-organizzativo. Innanzi tutto, il "big-bang" democratico non potrà restare un unicum irripetibile, ma dovrà diventare la regola generale con la quale saranno prese le decisioni più importanti, a cominciare da quelle che riguardano la selezione della leadership, a tutti i livelli, e più in generale delle candidature, in modo da garantirne la effettiva contendibilità. In secondo luogo, e in coerenza con la natura di partito "a vocazione maggioritaria", a regime la leadership di partito dovrà coincidere con la premiership, o con la candidatura a premier, come avviene in tutte le grandi democrazie europee. Terza, necessaria coerenza, il Pd dovrà essere un partito federale, in grado di dare espressione alla diversità delle realtà territoriali: non ci dovranno essere sezioni "periferiche" di un partito centralizzato, ma una rete di partiti territoriali federati, profondamente radicati nelle società locali, anche se culturalmente aperti a una prospettiva nazionale, europea e globale. Infine, le modalità di associazione e di militanza dovranno essere le più varie e flessibili, secondo un modello a rete, che valorizzi le sezioni territoriali come i circoli di ambiente, le associazioni culturali come le forme più innovative di contatto telematico: è anche in questo modo che il Partito democratico potrà contribuire a portare all'impegno e all'assunzione di responsabilità politiche più donne e più giovani.

Walter Veltroni - Prefazione al libro “La nuova stagione” (Rizzoli) di imminente uscita

Che cos’è un centrosinistra di nuovo conio?

di FRANCESCO RUTELLI

Nuovo conio. Significa battere la stessa moneta con un conio nuovo? Certamente, se parliamo della Zecca. Ma nella politica italiana si tratta di coniare una moneta nuova. Per intenderci, come passare dalla lira all’euro.
Le frettolose repliche polemiche alle ipotesi di «alleanze di nuovo conio» per i futuri governi di centrosinistra finora non hanno colto il punto. Fotografano l’esistente. Che non è soddisfacente. Ignorano le grandi potenzialità che può schiudere la nascita del Partito democratico; anzi, si affannano a cercare di sbarrare la strada a quello che sarà naturaliter un più che probabile sbocco per il Pd: decidere le alleanze in base al progetto in campo per governare e cambiare questo paese.
Non più constatare l’estrema difficoltà di governare e cambiare l’Italia se l’alleanza non dovesse rispondere al progetto, se l’esperienza non dovesse rispondere al dovere e alle attese di coraggiose riforme. Perché, senza riforme coraggiose, l’Italia è condannata a non crescere, a restare indietro.

Questa condanna noi la vogliamo ribaltare. Agiremo subito, cominciando col contribuire alle proposte per l’agenda del governo, a partire dalla manovra economica dell’autunno.
Che primarie sarebbero, senza proposte chiare sulle grandi questioni su cui si misura il paese? Abbiamo detto una verità semplice: gli alleati di oggi – che dureranno per la legislatura, secondo l’impegno preso con gli elettori – non è detto che lo siano a vita. Dipende dalla sinistra più radicale, se continuerà a isolarsi, a cercare una caratterizzazione su temi troppe volte conservatori e talvolta del tutto minoritari. Attenzione: non in minoranza tra i “moderati” o “la borghesia”, come si diceva un tempo: minoritari nel popolo, nei ceti popolari. Ci auguriamo sinceramente che il confronto tra queste forze si risolva per il meglio: con un chiaro orientamento per il governo.
Ma le decisioni strategiche, che cambieranno lo scenario della politica, dipenderanno dalle scelte del Pd. Un partito nuovo non nasce per registrare la media aritmetica delle posizioni in campo: rivolge una sfida. Se vogliamo che questa sfida recuperi e accresca i consensi, non chiudiamoci nel nostro recinto. Troppe volte è un recinto immaginario, riservato agli addetti ai lavori.

Entriamo nei grandi spazi aperti del paese. C’è una società che cambia velocemente: è in bilico, ma oggi propende a farsi guidare da una destra populistica, coltivatrice dei mille particulare italiani.
Negli anni a venire, l’alternativa al ritorno della destra non potrà che essere un centrosinistra di nuovo conio. Il Partito democratico dovrà dimostrare di saper fare la sua parte: avere idee, progetti, capacità di organizzazione e soprattutto capacità di ampliare il consenso. I segni si vedranno già nella competizione delle prossime settimane.

Francesco Rutelli - “Europa”, 25 agosto 2007

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