Chi aspira alla leadership del Pd deve misurarsi con il dilemma vero che emerge dal confronto in atto nel centrosinistra: può, un governo di cui componente rilevante è la sinistra estrema, portare a compimento il piano di riforme economiche e istituzionali di cui ha bisogno il Paese? La questione è seria. Né è aggirabile con qualche marchingegno che rinvii i problemi o con un defatigante tatticismo. E non per la caparbietà massimalista degli attuali leader della sinistra radicale. Ma per ragioni strutturali. Per il modo concreto con cui si è conformato lo sviluppo italiano. Segni di malessere sociale e un livello preoccupante degli indicatori di disuguaglianza e povertà alimentano posizioni difensive sostenute dalla sinistra radicale e sindacale nel nome di una malintesa tutela di diritti.
In realtà si tratta di problemi che hanno origine nella bassa crescita, nella scarsa efficacia della politica di bilancio a fini redistributivi, in un andamento stagnante della produttività. Solo irrobustendo il tasso di crescita della economia italiana sarà possibile affrontare questi problemi e diffondere quote ulteriori di benessere, maggiore stabilità nel lavoro e più forte coesione sociale. Occorrono dunque riforme. Così stanno le cose. La difficoltà consiste nel fatto che non è ipotizzabile una facile e lineare conciliazione tra le posizioni sostenute dalla sinistra radicale e le aspirazioni riformiste del centro sinistra. Chi lo afferma sa di compiere una forzatura. Prendiamo l'esempio dei recenti provvedimenti sul welfare. Si è inteso correggere una misura, ereditata dal precedente governo, che conteneva forzature e ingiustizie. Ma il nodo di fondo dell'evoluzione del sistema previdenziale rimane. Ciononostante la fatica per giungere all'accordo ha mostrato quale livello di conflittualità politica ingenera una pur minima azione di riforma. L'esempio del welfare potrebbe essere replicato per le tematiche ambientali o per le grandi opere pubbliche e infrastrutturali. E tralascio la politica estera. Insomma, con la sinistra radicale il cammino delle riforme è incerto e contrastato. E tuttavia, se essa non è sostituibile con un repentino cambio di alleati, come si esce dal dilemma? Una risposta potrebbe essere il Partito democratico. Una caratterizzazione riformista senza equivoci del Pd potrebbe, nell'immediato, attenuare il condizionamento conservatore delle posizioni massimaliste. E, in prospettiva, consentire una configurazione politica del centrosinistra più equilibrata. Non solo. La nascita di una nuova formazione politica dal forte e limpido profilo riformista potrebbe essere la chiave per indurre cambiamenti anche su altri versanti del sistema politico. La scelta del leader del Pd fornisce dunque un'occasione ideale per muovere in questa direzione. Il rischio che non la si colga è tuttavia forte. Il pericolo è che non emerga, con chiarezza e trasparenza, la piattaforma concreta di azioni di riforma e la prospettiva di alleanze verso cui si intende indirizzare la politica del Pd.
Nel sostegno a Veltroni, per esempio, la posizione di chi allude a nuove alleanze convive con le posizioni che da tempo disegnano il Pd come una formazione politica che dovrebbe far coesistere «riformismo e radicalità». Che è il modo elegante di rendere permanente l'attuale perimetro di alleanze del centrosinistra. Ho timore che questo valga per altri nodi programmatici. Il richiamo astratto al riformismo serve a conservare vari tipi di ossimori politici che attanagliano e indeboliscono l'azione di riforma del centrosinistra: la politica energetica delineata da Bersani e l'ambientalismo conservatore; le «liste dei giovani» e il tetragono conservatorismo di alcuni leader sindacali e così via. Una specie di riformismo incoerente che ripropone il vizio e la debolezza della sinistra di governo italiana degli ultimi quindici anni. È possibile spezzare questo circolo vizioso segnato da una sorta di ecumenismo che, nell'ansia di non lasciare fuori nulla, rischia di eternizzare la fragilità riformatrice del centrosinistra e il blocco sostanziale della politica italiana? E torniamo al Partito democratico. Nella competizione per la sua leadership io credo che la candidatura di Enrico Letta possa essere quella che può (per il profilo culturale più che per ragioni anagrafiche) occupare lo spazio del riformismo coerente. Esso dovrebbe far leva su due punti chiave: l'archiviazione dell'ossimoro di «riformismo e radicalità» per consegnare all'Italia una formazione politica nuova, autonoma e dinamica nella costruzione di alleanze che possano favorire la realizzazione di un progetto riformatore; l'elencazione puntuale delle proposte di riforma che il Pd si propone di sostenere per dare all'azione del governo di centrosinistra una caratterizzazione più nettamente tesa al cambiamento. Lavorando in questa direzione, la difficile impresa in cui è impegnato Letta avrà, in ogni caso, un valore decisivo per il futuro del Pd.
Paolo Franchi su “Il Riformista” EDITORIALE lunedì 13 agosto 2007 PRIMARIE DEL PD Adesso misuriamoci con il dilemma vero
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1 commento:
Ricordo la parola riformismo come il processo di modifica in positivo, migliorativo delle condizioni di vita precedenti, della gente che vive del proprio lavoro. Oggi vivo con angoscia ogni processo di riforma in quanto la seconda repubblica ha "normalizzato" la vita del popolo facendolo arretrare rispetto ad una serie di diritti sanciti dallo Statuto dei lavoratori in avanti.Le forze della sinistra che resistono alla disgregazione delle tenui garanzie che aveva il popolo, vengono tacciate di radicalismo e di avversione alle "necessarie riforme".Intanto le categorie forti della nostra società hanno ritagliato per se stesse una serie di privilegi che le escludono dai colpi di mannaia che si insiste debbono essere inferti al welfare come lo si conosceva. Il mondo del lavoro autonomo, la casta dei politici, la magistratura, i militari, i giornalisti, la banca d'Italia, i sindacati le regioni a statuto autonomo ... e chi più ne ha... sono esclusi dalle "necessarie riforme". In tempi di magra non ci dovrebbero essere eccezioni di sorta per categorie protette. La mancanza di onestà intellettuale che si manifesta quando si chiedono sacrifici a categorie altre, è francamente insopportabile. Prima di chiedere sacrifici agli altri verifichiamo a cosa è disposto a rinunciare chi chiede i sacrifici. Non le pare, caro "giornalista"?
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