“I due rischi Democratici”, è questo l’editoriale di oggi del quotidiano della Margherita Europa. È firmato dal ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni. Lo riproduciamo di seguito.
Tra due mesi, con la nascita del Partito democratico, si conclude l’esperienza della Margherita. Che cosa resterà, oltre alla rappresentanza europea, di quella esperienza? Innanzitutto l’orgoglio di una missione compiuta. La Margherita si scioglie nel Pd non perché il suo progetto sia fallito, ma proprio perché ha avuto successo.
La missione che la Margherita si era assegnata, nascendo nel 2001, non era infatti la propria crescita in sé; tantomeno l’ambizione di assorbire al proprio interno le diverse componenti del riformismo democratico.
Due obiettivi ci ponemmo allora. Primo, contribuire a spostare in senso riformista e della cultura di governo gli equilibri dell’alleanza di centrosinistra (allora, l’Ulivo). Secondo, creare una forza plurale, ben insediata nel campo del centrosinistra, capace per qualità e anche per dimensioni di orientare l’evoluzione dell’area post-Pci verso il Partito democratico, scoraggiando le ambizioni –rivelatesi del resto velleitarie – di incorporare nei Ds le diverse culture democratiche e repubblicane italiane.
Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti e questo ha reso credibile il progetto del Partito democratico come oggi lo perseguiamo.
Sono stati raggiunti, questi obiettivi, anche perché la Margherita ha dimostrato in vivo la fecondità della mescolanza di culture ed esperienze anche molto diverse. Le difficoltà affiorate nell’ultimo anno – penso al ritorno identitario degli ex popolari a Chianciano, o a un certo appannamento del profilo liberal del partito – non devono mettere in ombra i risultati ottenuti.
Ma davvero la missione è compiuta? Piuttosto, direi che è trasferita.
Trasferita al Pd. La missione del Pd dovrà essere tipicamente maggioritaria. Il suo orizzonte: rimettere in moto l’Italia. Un orizzonte prima che politico, “nazionale”.
Senza questa missione nazionale, se si presentasse come una delle diverse componenti di una interminabile carovana di centrosinistra (magari la componente “moderata”), il Pd non avrebbe futuro.
Per aspirare a svolgere questa missione, al Pd servono due condizioni. La prima condizione è cominciare a tratteggiare gli obiettivi di questa vocazione maggioritaria, ridefinendo attorno ad essi il profilo delle alleanze possibili. Qui scatta subito l’altolà dello stremato continuismo che aleggia nella carovana del centrosinistra: «ma allora volete cambiare alleanze, sostituire la sinistra radicale con i centristi». Una simile ipotesi sarebbe semplicistica ed inutile. E comunque il patto con gli elettori va rispettato e la maggioranza che sostiene il governo Prodi non si cambia in corso d’opera.
Altro deve proporsi il Pd: chiarire i propri obiettivi per il futuro governo del paese e in base ad essi verificare le alleanze possibili, ovviamente in un quadro bipolare.
A questo deve essere utile anche una nuova legge elettorale.
A furia di considerare gli obiettivi di governo come la risultante delle compatibilità interne ad alleanze obbligate, l’Italia si è fermata. Il Partito democratico può farci uscire da questo stallo. E se la sinistra radicale ha un progetto alternativo – e di certo lo ha – chieda il consenso per affermare il proprio programma, non per neutralizzare il nostro.
La forza del Pd sarà dunque tutta nella sua capacità di innovare rispetto alle tradizioni politiche del secolo scorso, tradizioni che senza innovazione sono ormai costrette sulla difensiva e talvolta minoritarie rispetto alla nuova destra degli ultimi dieci anni.
L’obbligo di innovare riguarda anche l’orizzonte socialdemocratico che è il riferimento prevalente del socialismo europeo.
Sarebbe infatti paradossale se, mentre il Pd con la sua stessa nascita va oltre il socialismo europeo, la sua cultura politico-programmatica si rifacesse a quella tradizione.
O addirittura la considerasse come un approdo già bello e definito.
Il Pd, insomma, non può inseguire, da ultimo arrivato, una idea di welfare che non sostiene più le fasce davvero deboli, un paesaggio sociale di riferimento che rischia di essere minoritario, una perdurante diffidenza verso il lavoro autonomo, la cultura del rischio, il ruolo centrale della famiglia.
Il superamento del socialismo europeo non implica affatto l’abbandono delle ragioni ultime della sinistra. Al contrario, in molti casi implica l’abbandono di posizioni che, ricalcando pigramente schemi maturati nell’Europa di 40 anni fa, vanno a discapito dei più deboli. E non solo in via indiretta, perché frenano la crescita economica, ma anche direttamente perché impediscono di orientare le risorse verso i giovani, i precari, le famiglie numerose, gli anziani non autosufficienti, i nuovi poveri.
La seconda condizione perché il Pd possa svolgere la sua missione nazionale è che si presenti e si costruisca come un partito davvero nuovo. Si è discusso molto delle regole che ci siamo dati e dei rischi di un processo verticistico o addirittura poco democratico. Francamente questa discussione non mi convince, specie dopo che si è aperta una competizione tra candidati diversi e autorevoli.
Parlare di rischi di scarsa democrazia nell’unico grande partito al mondo che affida al voto diretto dei propri potenziali sostenitori la scelta dei delegati e della leadership mi pare paradossale. Tanto più in un paese in cui il maggior partito concorrente non ha mai tenuto un congresso e certo non si può permettere la scelta del leader.
Il rischio di verticismo, che c’è eccome, non deriva dalle regole di cui si discute ma dalla fatica a superare e a mescolare i due partiti che promuovono il Pd. Su questo piano la fase costituente sarà cruciale: o Ds e Margherita si sciolgono e si ricompongono sulla base di idee e programmi nei prossimi due o tre mesi, o rischiano di non farlo più. La vicenda delle candidature alla leadership non preoccupa per le regole, ma perché ha messo in luce tra gli ex Ds un’idea di unità del partito che tende a sopravvivere al partito stesso.
Ecco la sfida più difficile per Veltroni, la sfida vera: attorno a idee, programmi, formazione di gruppi dirigenti creare un partito nuovo, non una federazione di ex.
Paolo Gentiloni
martedì 21 agosto 2007
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